Il fasmide ha fatto del suo corpo lo scenario in cui nascondersi, incorporando quello stesso
scenario in cui nasce. Il fasmide è ciò che esso mangia e ciò in cui esso abita. È ramo, talea,
frasca, cespuglio. È la corteccia e l’albero. La spina, lo stelo e il rizoma.
Georges Didi-Huberman
Avanti, strisciamo, − disse Bernard, − sotto la volta di foglie di vite, raccontiamoci delle storie.
Viviamo sottoterra. Prendiamo possesso del nostro territorio segreto, illuminato da grappoli
d’uva sospesi come candelabri che versano luce rossa da una parte e nera dall’altra.
Virginia Woolf
Avviciniamoci, l’acqua fredda comincia a scorrere. Anche se lentamente, possiamo già sentirla. Soggiorniamo sulla soglia: mormorii o minacce, oracoli o echi; difficile ancora distinguere le voci sotterranee, lontane, le voci profonde della caverna. Esse emettono il loro richiamo. Chi non ricorda, sin da bambino, l’attrazione esercitata da questi rifugi naturali o artificiali?
Memorie che riaffiorano, luoghi del desiderio, antri rocciosi da cui sbirciare il mondo senza essere visti. Conoscemmo dalle origini il bisogno di un rifugio, di un posto in cui accendere il nostro primo fuoco, − “vogliamo essere protetti, ma non vogliamo essere rinchiusi”, scrive giustamente G. Bachelard. Nella grotta l’essere umano fa esperienza dei paradossi spaziali del fuori e del dentro, della sosta e del passaggio, del riposo e dell’attività immaginifica dei sogni, del là e del qui. Passiamo da una sensazione all’altra, inglobati e trasformati da quello che vediamo, dal suono scrosciante che sentiamo, da una composizione visuale e sonora di un luogo cavernoso, in cui le immagini più intime si condensano e dove anche al nero, a volte, è concesso di brillare, ma solo a patto di essere sicuri di passare attraverso l’occhio della civetta. Ci si può allora facilmente rendere conto di come l’installazione site-specific realizzata dagli artisti Filippo Rizzonelli e Francesco Zanatta susciti, dopo una breve esitazione, reminiscenza di un primissimo istante di paura, un’improvvisa volontà di abitare e di conoscere. Incespichiamo, barcolliamo sui bordi di uno spazio seppellito nell’inconscio; avvolti dall’ombra come da un mantello iniziatico, ci rintaniamo nell’opera. La terra è umida e il mondo tutto è fecondo, così l’acqua dormiente dipinta da Francesco Zanatta e installata sotto di noi ci parla: è la voce naturale che sonorizza il paesaggio e rende fluido il pensiero.
È l’acqua dalla quale l’artista fa emergere le proprie figure, materializzando come un riflesso ciò che a poco a poco vede o immagina. Acqua verde e scura. Acqua che assorbe ciò che la circonda e ne fa un mondo che si specchia e guarda se stesso. Sorgente boschiva o palude salmastra, ci compiacciamo di riconoscere ciò che conosciamo: erbe, foglie, ciottoli, ramoscelli, senza capire realmente quanto possa essere profonda o quanto intensamente l’artista abbia sognato la sua sostanza. Davanti all’antro profondo della grotta comprendiamo che il percepito viene da molto lontano, che la materia richiede una praxis esplorativa e che l’artista, in un gesto insurrezionale, impastando e mescolando, tempera l’acqua, rende tenera la terra e trasforma il mondo in una sorta di rivolta. Ecco come le sculture di Filippo Rizzonelli presentano la struttura del mondo stesso, i sotterranei dei nostri sogni nonché l’ambivalenza delle immagini: paura e stupore, desiderio o timore.
Grandi stalattiti e stalagmiti si insinuano dappertutto, si avviluppano su sé stesse e si tingono di azzurro, manifestando la loro volontà di trasformazione. Ninfe, naiadi – figure privilegiate dall’artista – sembrano allora prendere forma in una cripta votata a nascondere giovani addormentate o eterne bagnanti. Ma non è tutto. Quando pensiamo di aver visto abbastanza è proprio nell’acqua che improvvisamente scopriamo la vita di un animale che sembra nascere dalla scenografia stessa: un granchio – simbolo benefico legato ai miti della luna e incaricato dal Sole di far riemergere la terra dal fondo dell’oceano – proietta lo spettatore oltre i limiti della tela. L’animale acquatico dipinto dall’artista Francesco Zanatta è sapientemente celato da Filippo Rizzonelli poiché, come spesso ci viene ricordato, la profondità ama nascondersi sotto superfici e apparenze.
Ci rendiamo allora conto che all’imboccatura della caverna i nostri passi esitano perché varcala significherebbe scendere in noi stessi, emozionarsi e − parafrasando Merleau-Ponty − mandare in frantumi il mondo oggettivo che ci sbarra la strada e cercare una soddisfazione simbolica in atti magici.
Mohini Dasi Pettinato